ITA Più volte ho usato lo spettro come simbolo per veicolare la mia azione all’interno di questo Museo. Lo spettro sia come fantasma, che mi perseguita e rincorre, ma spettro anche come come raggio d’azione all’interno del quale possono essere raccolte infinite attività da un punto ad un altro. Spettro nella sua etimologia indica la visione, e deriva dal guardare. Tecnicamente è anche quella figura a colori che si genera quando un fascio di luce attraversa un prisma e raccoglie tutti i colori dell’iride. Lo spettro si manifesta quando apriamo gli occhi. Ed è proprio l’iride a costringere una certa quantita di luce dentro la pupilla ed innescare il bombardamento fotonico che genera l’immagine; lì piantata in mezzo al cervello. Le immagini si accumulano e si sovrappongono, troppe immagini ad una velocità inaudità. Quando ho cominciato a ragionare su che immagine restituire ho pensato più al come che al cosa. Perchè cosa ormai non è più oggetto di questa ricerca, in questo fogna, in questo abbisso c’è di tutto, ma come fare ad elevare un’immagine all’imagine? In che modo costringere la luce a dare forza a quella sola ed esclusiva immagine?
Nel novembre del 2021 in occasione della presentazione del tema del riallestimento della collezione del Museo ho scritto:
“Sorgenti, livelli, sfondi tutto si può sovrapporre. Non esistono contesti specifici, o meglio questo contesto specifico è asfissiante. L’esterno diventa l'interno, i bordi delle figure resistono solo grazie ad una luce forte, abbiamo bucato tutte le pareti. Il Museo ha bisogno di spazio, aria e luce. La nuova collezione deve crescere, tende naturalmente al sole, è tutta questione di energia e del suo efficientamento. Il digitale non è nient’altro che un filtro sensoriale, e io zoommo con le dita, memorizzo attraverso dei parallelepipedi che ruotano per un massimo di 15 secondi, scrollo perchè sento la noia. Fare una foto, quanto tempo ci abbiamo messo a fissare la luce su carta, quei bordi, quei chiaro scuro, e l’ombra? Lucem demonstrat umbra. Solo l’ombra dimostra la luce. Ma nell’intarsio a chiave colore non ci sono ombre, non ci possono essere ombre.”
Le cose per fortuna evolvono e si trasformano se è questo che desideri. E dopo la luce c’è sempre il buio, almeno così ho imparato. Si è vero no non c’erano ombre nell’intarsio luce colore ma tutta quella luce acceca. Le luci dello spettacolo accecano fin tanto che lo spettacolo dura. E quando finisce? Rimane quel sapore di fantasmi e caffe amaro, di puzza di vomito e maiali sgozzati. Ma i cerchi sono cerchi e tutto ritorna per metterti davanti a quegli errori che sono la cifra di questo lavoro. Qualcuno ritorna a vedere le ombre in questo lavoro. Io vedo solo gli errori. Continuare a fare errori, in maniera organica, mettendo alla prova la materia stessa delle nostre relazioni, la memoria.
Il Fantasma dell’Opera di Giuseppe Calamia parla di assenza e di presenza, di vicino e di lontano, di dentro e fuori. Non poteva essere che questa l’inaugurazione della stagione espositiva 23/2. L’esperienza sonica gratta dai muri i pezzi di pelle di corpi esplosi e dilaniati, di occhi appesi e mani mozzate, pulisce e disinetta. Con la sua chitarra, l’artista toglie lo sporco perchè le pareti non debbano ancora assorbire il sangue e la carne, ma possano finalmente esser testimoni di cose, di oggetti che brullicano e di immagini che parlano. Da una stanza remota, così l’artista ha deciso di posizionarsi. Lontano dalle pareti, ma vicino alla luce, così proiettando un’immagine immensa di corpi che danzano, che si appogiano, che scodinzolano, che guardano, che attendono.